Ogni tanto, come oggi, ci capita di leggere la Parabola del Buon Samaritano. Parabola scomoda che sintetizza quello che è il cuore del messaggio evangelico e di tutto il cristianesimo. Gesù, che in fondo è un furbacchione e uno che ne sa una più del diavolo, ama mettere in crisi le certezze dei credenti del suo tempo, smascherando la falsa religione molto prima di Marx e di Nietzsche, di Sartre e Cioran, e di tanti altri atei che nei suoi confronti sono davvero piccoli.

L’ateismo di Gesù è funzionale a liberare gli uomini da una falsa idea di Dio, specie quando in nome di Dio si commettono delitti contro tutto ciò che è umano. Gesù non ama la religione delle regole e dei precetti, ma la religione del cuore. Perché con le regole si può anche barare, ma con il cuore non si scherza, a meno che non hai scelto la via dell’ipocrisia che, sappiamo dai vangeli, lui ha denunciato senza peli sula lingua.

Gesù ama una religione poco religiosa e poco rituale, poco istituzionale e molto profetica, fuori dagli schemi. Molto carnale e spirituale, attenta ai bisogni reali della gente di cui ha un grande rispetto. La religione non è una ideologia in mano ai potenti di turno per addomesticare le masse. Non è l’oppio che cinici sfruttatori usano per impedire alle masse degli sfruttati di prendere coscienza dei loro diritti calpestati e della necessità di riscattare la loro dignità mediante una rivoluzione interiore. Non usa il dolore quale scusa per appioppare Dio agli uomini disperati.

Innamorato di Dio, egli è allo stesso tempo e alla pari innamorato dell’uomo. Perché l’amore con cui ama Dio è lo stesso di quello con cui ama l’uomo. E ogni sua parola è un canto, un inno alla bellezza e alla dignità umana. Egli va contro chi usa la religione come potere da esercitare sulle coscienze per manipolarle a proprio piacimento con la scusa di salvare le anime. Meglio un dannato libero che un convertito forzato. Non si appioppa Dio usando la paura, ma solo lanciando la sfida dell’amore. Perché l’amore rende davvero liberi dentro e fuori.

Ecco perché la parabola del buon samaritano. Essa ci presenta tre categorie di persone. Il primo personaggio è un sacerdote. Egli rappresenta tutti coloro che pensano che Dio abiti nel tempio, nei riti, in una sacralità disincarnata. Infatti, per andare al tempio non si ferma, lascia l’uomo al suo destino e pensa che si possa amare Dio e dimenticare l’uomo. Ha tempo per Dio ma non ha tempo per l’uomo. Ha separato il tempio di Dio dalla strada dell’uomo. Due dimore contrapposte che invece sono due luoghi di uno stesso cuore. Invece, nel cuore di Gesù, strada e tempio cantano insieme alla bellezza di Dio e dell’uomo. Quante preghiere inutili avrà fatto quel sacerdote che non ha saputo trasformare il dolore e la domanda di quel malcapitato in silenziosa invocazione con cui commuovere le viscere divine! Poteva essere per lui l’opportunità per incontrare Dio nell’uomo e incontrare l’uomo in Dio – il miracolo dell’incarnazione – e invece ha fallito l’occasione.

Poi c’è lo scriba, colui che pensa che Dio stia nella Legge e nelle sole Sritture. Egli non sa che c’è un Parola fuori della Parola. Una Parola non scritta tra le righe dei libri biblici, ma che invece si trova scritta silenziosamente sui volti degli uomini, nei loro corpi doloranti e nelle loro gioie spezzate. Egli ama i precetti ma non capisce che il più grande precetto di Dio è l’uomo, creatura amata e cercata dal suo Creatore. Conosce il Dio delle regole ma non il Dio dell’amore. Lo scriba è più pericoloso del sacerdote perché fa il teologo a tempo perso. Fa teologia senza fare antropologia. Specula su Dio ma non sa sporcarsi le mani. Fa teologia sulla pelle dei disperati. Il suo grande limite? Crede in un Dio sbagliato. Crede più in ciò che crede lui piuttosto che lasciarsi sfidare dalle vicende eretiche della vita.

A questo punto Gesù che sta giocando con i suoi ascoltatori, scopre le sue carte e cala l’asso. Finalmente fa entrare in scena un uomo  –  cioè se stesso – di cui si dice che è un samaritano, un eretico, uno scomunicato, un nemico della religione ufficiale. Uno straniero.

Egli del malcapitato potrebbe approfittare per finirlo e toglierlo di mezzo, per avere un nemico in meno sulla terra. Forse non era neanche religioso e devoto. Forse non amava neanche Dio. La su religione è la religione dei dubbi e delle domande. Si lascia mettere in questione. Non passa oltre, perché l’oltre ce l’ha davanti. E’ lì. In quel malcapitato sta racchiusa tutta la trascendenza possibile. Se c’è un Dio, quel Dio si è fermato lì. E’ lì per strada. E’ l’occasione per dare una svolta alla propria vita.

Si lascia interrogare dal dolore e si commuove per un uomo sconosciuto e avverso- Forse in quel malcapitato vede se stesso rispetto ad altri. Si immedesima. Fa empatia. Ferma tutto. Dimentica i suoi affari e i suoi profitti, la sua meta e le scadenze. Anche la sua famiglia che lo aspetta a casa. Ecco che riesce a coniugare i luoghi distanti: casa e strada. E se lo carica sul suo giumento. Mette in atto gesti di fraternità che commuovono perfino Dio. Vive e mette in pratica la legge non scritta su nessuna tavola, ma scritta nelle coscienze di tutti i popoli, conosciuta anche ai pagani e ai greci: la prossimità e l’ospitalità.

Gesù scandalizzando i suoi ascoltatori elogia quest’ultimo facendoci capire che Dio non abita più nel tempio ma nell’uomo. In questo modo Gesù eleva l’uomo a sacramento di Dio. Infatti, i sacramenti non sono sette, ma otto, e che l’ottavo sacramento è l’uomo della strada.

Ecco l’ateismo di Gesù: Dio non abita più nei templi e nelle chiese, ma in ogni uomo. Un Dio di strada che eleva la strada a luogo sacro. A tempio di Dio. La strada come luogo teologico e antropologico prima che sociologico.

Chi ama Dio e non ama l’uomo ama un Dio che non esiste. Ma chi ama l’uomo, anche se non conosce Dio, in fondo senza saperlo sta amando anche Dio, perché come ho scritto nel mio ultimo libro, nessuno può amare se non ha Dio nel cuore. E ce l’ha anche se non lo sa.

L’attualità di questa parabola è molto forte. Infatti, chi, almeno una volta, nella vita non si è trovato come “gettato”, “abbandonato” sulla strada da Gerusalemme a Gerico. In fondo siamo tutti dei malcapitati (dei migranti nel tempo che non ci appartiene e in uno spazio che non possiamo circoscrivere) in cerca di un buon samaritano che ci raccolga e ci metta sul suo asinello? E che ci porti in una locanda dove guarire le nostre ferite. Si, perchè abbiamo tutti una ferita che ci lascia appiedati per strada. E questo perché – bianchi o neri, gialli o verdi, abitanti del Nord o del sud, ricchi o poveri, sedentari o nomadi – la più grande ferita che accomuna tutti e che tutti ci rende ospiti gli uni degli altri è il solo fatto di essere nati.

Perciò più strada  e meno chiesa. E buona prossimità a tutti!