In un suo famoso testo, scritto per la festa del “Corpus Domini” del 1984, dal titolo “Sono credibili le nostre Eucaristie?”, don Tonino Bello, citando una frase di Garaudy, poneva una questione per riflettere a proposito dell’Eucaristia: “Cristo è nel pane. Ma lo si riconosce nello spezzare il pane”. E ciò lo gettava in una «incertezza paralizzante».

Per il presidente di Pax Christi, che nel suo episcopio aveva ospitato alcuni sfrattati, «non ci può essere festa del “Corpus Domini “, finché un uomo dorme nel porto sotto il “tabernacolo” di una barca rovesciata, o un altro passa la notte con i figli in un vagone ferroviario». Chiaramente non aveva paura di «violentare il perbenismo borghese di tanti cristiani, magari disposti a gettare fiori sulla processione eucaristica dalle loro case sfitte, ma non pronti a capire il dramma degli sfrattati».

E se qualche bigotto aveva paura che, con questi discorsi, si potesse «banalizzare il mistero eucaristico», rispondeva dicendo che «non può onorare il Sacramento chi presta il denaro a tassi da strozzino; chi esige quattro milioni a fondo perduto prima di affittare una casa a un povero Cristo; chi insidia con i ricatti subdoli l’onestà di una famiglia».

Per don Tonino, i cristiani si giocano la loro credibilità non «in base alle genuflessioni davanti all’ostensorio, ma in base all’attenzione che sapranno porre al “corpo e al sangue” dei poveri e degli ultimi, perché trovino un luogo di accoglienza e di riscatto». «Purtroppo –  scriveva – l’opulenza appariscente delle nostre città ci fa scorgere facilmente il corpo di Cristo nell’Eucaristia dei nostri altari. Ma ci impedisce di scorgere il corpo di Cristo nei tabernacoli scomodi della miseria, del bisogno, della sofferenza, della solitudine».

Riteneva che molte nostre eucaristie fossero “eccentriche”. E da qui lanciava il suo appello: «Credo che la festa del Corpo e Sangue di Cristo esiga la nostra conversione. Non l’altisonanza delle nostre parole. Né il fasto vuoto delle nostre liturgie». D’altronde, il vescovo di Molfetta si poneva sulla scia di una lunga tradizione che vede uno stretto collegamento tra celebrazione-adorazione dell’eucaristia e servizio ai poveri. Basta citare due giganti: S. Giovanni Crisostomo (IV-V sec. d.c.) e S. Vincenzo de Paoli (XVI-XVII sec.).

Per il primo, famoso è il passo dove afferma che se si vuole onorare il corpo di Cristo non si deve permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. «Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il fatto con la parola, ha detto anche: “Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare” e “ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l’avete fatto neppure a me”, […] Perciò, mentre adorni l’ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello».

Per S. Vincenzo de Paoli, «il servizio dei poveri deve essere preferito a tutto. Non ci devono essere ritardi. Se nell’ora dell’orazione avete da portare una medicina o un soccorso a un povero, andatevi tranquillamente. Non dovete preoccuparvi e credere di aver mancato, se per il servizio dei poveri avete lasciato l’orazione. Non è lasciare Dio, quando si lascia Dio per Iddio, ossia un’opera di Dio per farne un’altra. Se lasciate l’orazione per assistere un povero, sappiate che far questo è servire Dio».

Ecco il messaggio della festa del Corpus Domini: che l’eucaristia è già di per sé sociale e ogni gesto sociale di prossimità e di fraternità è un gesto squisitamente eucaristico.

Don Tonino lo aveva sintetizzato molto bene quando parlava di stola e grembiule. Non si tratta di «introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo…sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo. La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica. Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile». Pertanto, la Chiesa del grembiule è di per sé eucaristica, e, viceversa, la Chiesa eucaristica è sempre una Chiesa del grembiule.

Benedetto XVI, nella Esortazione apostolica Sacramentum caritatis del 2007, scriveva che «L’unione con Cristo che si realizza nel Sacramento ci abilita anche ad una novità di rapporti sociali» (n. 89). Mentre nella sua prima enciclica, Deus caritas est, del 2005 affermava che «la “mistica” del Sacramento ha un carattere sociale» (n. 14), espressione ripresa anche da Papa Francesco nella sua Amoris Laetitia del 2016 (n. 186). Per tale motivo per don Tonino «Anziché dire la messa è finita, andate in pace, dovremmo poter dire la pace è finita, andate a messa. Ché se vai a Messa finisce la tua pace».

E così il cristiano è l’uomo delle due mense: quella eucaristica (che comprende quella della parola) e quella dei poveri. Nella prima siamo noi i poveri, i malcapitati della parabola e Gesù è il Buon Samaritano. Nella seconda siamo noi i samaritani e i poveri sono i malcapitati. L’Eucaristia ci rende samaritani per gli altri dopo che Cristo, il Samaritano eucaristico, si è preso cura di noi.

In ambedue le mense è presente l’unico e medesimo Cristo. Chi separa le due mense separa Cristo da Cristo. Nella mensa eucaristica Cristo è presente nel sacramento mistico del pane e del vino, in quella dei poveri Cristo è presente in maniera altrettanto mistica nei poveri. Questo significa che i poveri sono il sacramento di Cristo, secondo quando dice il vangelo di Matteo al cap. 25. In questo senso il servizio ai poveri è prolungamento di quello che si celebra nell’eucaristia.

Ci troviamo, in al modo, di fronte a due mense che sono ambedue due diverse forme di liturgia. Due liturgie complementari. Anche quella dei poveri è liturgia. Nella prima celebriamo la grandezza di Dio, nella seconda celebriamo la grandezza e dignità dell’uomo. Chi celebra Dio, prima o poi celebra l’uomo, e viceversa. E la più alta forma di celebrazione è il servizio.

Come ogni diakonia è liturgica, allo stesso modo ogni liturgia è sempre diaconale. Non si può vivere l’una senza l’altra, perché noi celebriamo un’unica e grande liturgia: la sequela evangelica. Un’unica liturgia vissuta in due tempi: quella eucaristica e quella sociale.

E solo così possiamo permetterci di cambiare un pochino il senso di una famosa affermazione teologica, e dire che se l’eucaristia fa la Chiesa, in chiesa, la Chiesa fa l’eucaristia fuori dalla chiesa.