L’Epifania, come ha detto il biblista E. Ronchi, è “la festa dei cercatori di Dio. Perché Dio è sempre da scoprire”. Festa dei lontani, perché Dio è vicino anche a chi pensa che Lui non ci sia. Già Socrate, come racconta l’Apologia di Platone, prima di morire disse che “una vita senza ricerca è inutile”, mentre il filosofo Heidegger, affermava che siamo tutti cercanti, perché siamo tutti mancanti. E il nostro cercare dipende da ciò che ci manca, da ciò che dà forma ai nostri desideri, alla nostra fame e sete. Per questo se “a Natale è Dio che cerca l’uomo, all’Epifania è l’uomo che cerca Dio. I re Magi sono l’anima eterna dell’uomo che cerca, il cammino dei discepoli imperfetti e mai arresi”. Usando una recente espressione che sempre Papa Francesco ha usato, si può dire che l’Epifania non è una festa per “abituati” ma per “innamorati”.

Papa Francesco una volta ha scritto che “I cuori adagiati non fanno domande. Chi ha risposte su tutto non si pone in questione su niente. Pensa di avere in tasca la verità come si tiene in tasca una penna, pronta all’uso”. E questo perché Dio ama più le domande che le risposte, perché attraverso di esse, prima o poi, arriviamo a Lui, domanda prima e ultima. Domanda muta che ci portiamo dentro, e che ci mette in viaggio ogni qualvolta le risposte che abbiamo trovato non ci bastano.

Due sono i gesti compiuti dai Re Magi: alzare gli occhi e partire. Il primo per scrutare, indagare, e capire. Il secondo per rispondere a un impulso, per dare seguito a un desiderio, per spezzare il cerchio vizioso della pigrizia e della rassegnazione. Il primo è un gesto di curiosità, fatto di stupore e di ricerca, il secondo è un gesto di coraggio, fatto per amore della verità.

Il primo per lasciarsi trasportare dalla grammatica delle cose che ci parlano del segreto che custodiscono, il secondo per cercare ai confini della propria anima ciò a cui il cuore anela e la mente rinvia. Si, perché “stella” (sidus, sideris) in latino è una parola che va a formare il termine “desiderio” (de-sidereus) che significa “lontano dalle stelle”.

I Magi erano “uomini dal cuore inquieto”.  Come ha scritto Papa Francesco in un suo recente libro, dal titolo Il mio presepio, “Il loro cuore non si lascia intorpidire nella tana dell’apatia, ma è assetato di luce; non si trascina stanco nella pigrizia, ma è acceso dalla nostalgia di nuovi orizzonti. I loro occhi non sono rivolti alla terra, ma sono finestre aperte sul cielo”. Ed ecco perché vedono la Stella.

Solo che quella che i Magi vedono non è una stella che acceca o illude, che abbaglia o seduce, che stordisce o che promette paradisi artificiali, una felicità a corto raggio. Al contrario, è una stella che mentre suscita stupore e meraviglia, fa nascere tutte quelle domande che l’uomo pone a se stesso e a Dio, ma anche le domande che Dio pone all’uomo. Una stella che non gioca ad emozionarci, ma che impegna a compiere un viaggio intrepido e faticoso, per nulla lineare, ricco di peripezie e di imprevisti

È una stella che dice e non dice. Anche se luminosa, non è così chiara ed evidente. Non dimostra nulla, se non se stessa. Rivela e cela. Rinvia a una verità che non è a portata di mano. Bisogna partire per trovarla, e seguirla fino in fondo per capire dove e a chi conduce. Non si impone, ma bisogna sceglierla tra tante come guida della propria vita.

Ma i Magi per vedere la Stella devono fare un altro gesto che non sempre va dato per scontato: alzare il capo, alzare gli occhi. “Alzare”, verbo di resurrezione. Verbo di chi, caduto, desidera rialzarsi. Di chi, paralizzato, vuole ripartire. È un gesto di rinascita e catarsi interiore che sa liberazione, oltre che di elevazione. Un gesto che vuole riconciliare ciò che è fuori di noi con ciò che è dentro di noi. Lo aveva capito anche il filosofo illuminista Kant quando diceva che due cose suscitavano in lui grande meraviglia. “Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.

Alzare il capo e gli occhi significa allargare i propri orizzonti e smettere di guardare il proprio ombelico come se fosse il centro del mondo. Significa guardare oltre. Guardare altro. Sfiorare l’Altrove, come fanno i poeti. Non fermarsi al già dato, alla fredda tirannia dei fatti, che sono accadimenti in cerca di un senso. Non accontentarsi di ciò che si è trovato, né lasciarsi catturare da ciò che si possiede, ma aprirsi al nuovo e all’inedito. Per scoprire il cielo che ci portiamo dentro.

Alzare il capo è il primo gesto di trascendenza per spezzare la nostra arida immanenza, la nostra sterile ripetitività. Esperienza che ci apre all’Altro, all’infinitamente e Totalmente Altro. Chi non sa trascendersi, rimane vittima degli spazi chiusi che ha costruito per proteggersi e conservarsi. Per paura di donarsi. Di perdersi.

La stella, in fondo, rappresenta lo spazio sacro che ci portiamo dentro e che ci spinge, per trovarlo, a uscire fuori dal nostro io. L’oltre che ci spinge al viaggio. L’oltre in cui abita, nascosto e silenzioso, l’altro, sia verticale (Dio) che orizzontale (il prossimo).

Infatti, chi alza il capo e guarda oltre (per cercare l’Altro), scopre che non è solo. Scopre altri sguardi, incrocia altri occhi, e comincia a camminare con loro. Alzare lo sguardo e il capo non è un gesto solitario, ma un gesto profondamente comunitario che ci fa scoprire che anche gli altri sono cercanti come noi. Un gesto di fraternità che ci fa tutti mendicanti di verità. Camminare insieme è più difficile che da soli, significa rallentare il passo e aspettare chi rimane indietro.

Non per niente i Magi sono più di uno e il loro viaggio finisce in una mangiatoia, ai piedi di un bambino, quale segno fragile di una verità potente ma scandalosa, affidabile ma anche paradossale. Qui lo sguardo si perde di fronte a un Infinito che mentre si rivela, di nuovo si vela. Un Infinito che si sposta, fino a entrarci dentro. Che non si spiega, ma che vuole essere solo riconosciuto, adorato e contemplato. Il viaggio finisce con l’adorazione che è una forma di elevazione e di liberazione interiore. Una consegna totale di se stessi a una Pienezza che non possiamo contenere. Dove la ricerca razionale più che arretrare e abdicare, si apre e si compie in ciò a cui essa anela.

E allora, a noi che abbiamo gli occhi abbassati e assopiti, se non addirittura spenti o vuoti, questa Epifania sia vissuta come una festa degli occhi ritrovati, rialzati. Festa degli sguardi sollevati. Non per scappare o per evadere, ma per ridisegnare orizzonti andati perduti. Di fronte alle tante forme di oscurità, il nostro primo compito è salvare gli occhi perché, come diceva la filosofa S. Weil, “la salvezza è nello sguardo”, grazie al quale possiamo guardarci dentro e trovare l’orizzonte a cui aprirci.

Perciò, buona Epifania: la festa degli sguardi ritrovati!