D’estate il mare ci attrae e spesso chi se lo può permettere è bello farsi un gioro in barca. Il grande filosofo e scienziato francese del Seicento B. Pascal amava dire che «Nous sommes embarqués, volendo intendere con questa frase che ognuno si trova imbarcato nella propria esistenza che non ha scelto e lì deve barcamenarsi tra infinite possibilità in ognuna delle quali si gioca tutta la vita. Insomma, esistere è navigare. Si, ma verso dove e con quale scopo?

Anche a noi uomini del Terzo millennio tocca navigare e farlo in un mondo dove tutto è ormai diventato liquido e forse ancor più gassoso: le istituzioni, le relazioni, l’etica, la politica, la religione, i quadri di riferimento. I confini, le frontiere, le identità. Anche le stesse parole. La scrittura.

Stiamo navigando, eppure sembra che giriamo attorno a un punto che si sposta di continuo. E’ come se stessimo girando a vuoto. Ognuno intorno a se stesso, alle proprie cose, ai propri interessi, al proprio ombelico che si sta sempre più assottigliando. Ultima frontiera di un ancoraggio che prelude ad un grande naufragio. Non solo dell’io, ma anche del Noi. Doppio naufragio, con o senza spettatore come recita un bel libro di H. Blumenberg.

C’è chi naufraga nel mare dell’indifferenza e del rifiuto e chi lo fa restando imbrigliato nella propria opulenza velata di egoismo e di cinismo. Si, perché quando il mare si fa tempestoso si pensa che ognuno per salvare se stesso debba per forza affogare gli altri.

Siamo come ingabbiati e incatenati alle nostre paure e alle nostre incertezze. Ognuno nemico dell’altro, in un clima di reciproca ostilità e di sospetto dove aperta è la caccia all’untore, in cerca di un capro espiatorio che ci salvi da quei sensi di colpa che non ci farebbero dormire la notte.  

Ciascuno, prigioniero del proprio ombelico, sta come precipitando in un abisso solitario e sterile che ci mette l’uno contro l’altro. Eppure continuiamo a navigare. E non solo nel mondo reale, ora anche nel mondo virtuale. Ovunque navighiamo, e lo facciamo a vista. Senza alcuna lungimiranza, senza alcuna misura.

Ma che cosa ci manca? Forse ci manca lo stesso mare che –  come ebbe a dire Nietzsche nel suo famoso aforisma 125 della Gaia scienza – ce lo siamo bevuti fino all’ultima goccia. Senza mare vengono meno le rive, vengono meno le distanze e tutto diventa disponibile. Viene meno anche l’orizzonte che è stato cancellato perché troppo lontano e impegnativo da raggiungere. Oppure, laddove è sopravissuto, ormai viene fatto giacere in qualche zona profonda della nostra anima stanca. Senza tracce e senza orme che siano capaci di rinviarci ad un oltre che dia senso alla fatica di esistere. O che ci dia la forza di navigare ancora.

Forse ci mancano le vele che sono come ammainate per paura di viaggiare verso lidi sconosciuti che potrebbero mettere in discussione le nostre verità e le nostre sicurezze, i nostri possedimenti e i nostri criteri. Ci manca il coraggio di volare, di osare. Di uscire. Di metterci in gioco. Le sicurezze acquisite ci hanno abituati al già dato, al già preparato. Ci manca l’attesa operosa mentre subentra il disincanto noioso.

Oppure ci manca il vento  –  metafora della libertà – che più non soffia nelle nostra capacità di immaginazione, nei nostri sogni. Vento che più non ispira la nostra creatività, o che ci dia il coraggio di rompere gli schemi e di rivedere anche le nostre leggi. Vento che più non soffia nei nostri pensieri e nei nostri cuori, nei nostri sentimenti e nei nostri progetti, nei nostri occhi e sui nostri volti spenti e depressi. Rassegnati e depauperati.

O peggio ancora, ci manca la rotta, mentre ci accontentiamo di navigare  a vista, a tentoni. Forse ci manca la mappa perchè il nuovo volto della complessità ha frantumato le nostre antiche visioni, mentre nel frattempo non riusciamo a disegnarne di nuove per sostituire le vecchie.

O peggio ancora ci manca la mèta mentre andiamo dietro quanti scambiano il fine con i mezzi, la mèta con la traversata.

Una cosa è certa: non ci manca la mancanza. Ma nessuno lo sa. Ed è forse proprio questo il problema. Continuiamo a navigare senza sapere che qualcosa ci manca né che cosa sia il contenuto di tale mancanza. Chi non si percepisce mancante non cerca. Assolutizza il presente che comunque svanisce.

Chi ci può salvare da questa atrofia della mancanza? Il pensiero. Non la sterile ragione, ma il pensiero che incontra il cuore. Quello che nasce da un corpo che si ribella ai vari riduzionismi e alle varie forme di idolatria.

Il compito del pensatore e dell’educatore oggi è proprio questo: ridestare la mancanza in un tempo apparentemente saturo. Per ricollocare ciascuno nel punto zero della propria esistenza. Lì dove, anche se in compagnia delle cose, siamo comunque soli. Giunti qui scopriremo che in fondo abbiamo bisogno gli uni degli altri. Che quelli che oggi scappano dai luoghi di morte e di miseria non sono altro che la memoria di quelle fughe che i nostri padri hanno sperimentato sulla propria pelle.

Se ritroveremo questo punto zero forse proprio da esso potremo ricominciare a navigare. E a farlo insieme. Unendo le barche, con le quali osare e di nuovo tornare ad attraversare il mare. Navigare senza permettere che nessuno faccia naufragio. Perché non ci si salva da soli. Infatti, o ci salviamo insieme  non si salva nessuno.